I dipendenti disabili portano creatività e benessere sul luogo di lavoro. Ma i pregiudizi sono duri a morire
Di Gabriele Di Mario
Nella storia dell’uomo, il “di- verso” ha avuto sempre una connotazione negativa. Da ciò sono conseguiti atteggiamenti differenti ma fondati su una comune ideologia, quella dell’emarginazione e del rifiuto della persona con disabilità. L’emarginazione da un punto di vista sociale riguarda tutti coloro che escono dagli standard creati e condivisi dalla società stessa e in essa possono rientrare diverse categorie sociali.
È nata nel 1980 da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità una “classificazione” dei diversi gradi delle menomazioni che può avere la per- sona con conseguenti difficoltà a relazionarsi con il mondo che la circonda. Negli ultimi decenni gli Stati dell’Unione Europea hanno avviato politiche per migliorare le condizioni di vita dei cittadini disabili e per creare opportunità per l’inserimento nella vita sociale con l’aiuto di forme istituzionali adeguate. Tra queste rientra l’integrazione lavorativa. In una società dove non c’è molto tempo per l’altro, dove si cercano lavoratori giovani e con esperienza, inserire un lavoratore disabile non è sicuramente prassi abituale. Le leggi per farlo ci sono, gli incentivi pure, ma cosa blocca ancora oggi le assunzioni alle categorie protette?
Può sembrare strano ma una persona con diverse abilità, e non privo di abilità, è una grande risorsa all’interno di un contesto culturale; comprendere questo non è cosa semplice o meglio prima di comprenderlo bisogna saper educare le persone a questo diverso modo di leggere la realtà lavorativa. L’handicap, ovvero lo svantaggio, è una conseguenza del deficit, non il deficit stesso. Anche una malattia non è uguale all’handicap, poiché essa ha un inizio ed una fine, mentre il deficit può esserne la conseguenza, ma ha carattere di stabilità. Una chiarificazione simile appare fondamentale considerando che nel mondo del lavoro ci sono molte persone che vivono situazioni di handicap, anche momentanee, a causa di problematiche varie.
Da qualche anno esiste una figura professionale, della quale si conosce ancora poco: il Disability Manager. Si tratta di un consulente del lavoro, che è formato nella gestione di tutte le differenze che siano di genere, di età, di provenienza geografica, di abilità, che ha la funzione di trovare i punti di maggiore funzionamento all’interno di questa grande differenza per contribuire in modo produttivo allo stato di benessere dell’azienda. L’obiettivo principe è accogliere e gestire le differenze per renderle produttive e fare delle differenze un punto di forza. Il suo compito è quello di raccogliere le istanze dei cittadini disabili e delle loro famiglie e di attivare il lavoro dei soggetti coinvolti vincolando i bisogni delle persone verso i servizi esistenti e di mettere in atto azioni che possano favorire l’accessibilità, evitando ogni forma di discriminazione. È di recente costituzione il progetto Inclusive Mindset, formato da un gruppo di persone che sono parte attiva all’interno d’istituzioni e aziende che operano da diverso tempo nel favorire la diffusione della cultura di buone pratiche sulla diversità e sull’inclusione nel mondo del lavoro, che ha come obiettivo diffondere una mentalità d’inclusione e di coinvolgimento dell’opinione pubblica all’interno di un dialogo e dello scambio di contributi ed esperienze di opportunità. Questo cambio di prospettiva, molto utile a livello aziendale, mette nelle realtà lavorative la possibilità di creare un nuovo piano d’intervento, dove la persona con disabilità con la sua presenza ha la funzione di stimolare all’interno del gruppo di lavoro la creatività, la motivazione, l’aumento di tolleranza e di conseguenza la diminuzione della conflittualità, e una maggiore produttività data da un ambiente lavorativo favorevole. Quando ci troviamo di fronte ad un’azienda che assume un dipendente con diverse abilità soltanto con l’obiettivo di applicare la normativa vigente e per evitare le sanzioni che il suo non rispetto comporta, ci troviamo di fronte ad una situazione dove il soggetto assunto diventa un elemento che pesa all’armonia e all’ambiente lavorativo, considerando che la stessa assunzione comporta un adeguamento e un abbattimento delle barriere architettoniche e sensoriali nei luoghi di lavoro, con l’utilizzo di ausili e tecnologie assistite che possano permettere lo stesso ritmo di lavoro rispetto agli altri dipendenti, compresa la possibilità di ottenere l’autorizzazione da parte dell’azienda di fare il telelavoro, cioè accordando gli orari di lavoro con l’azienda ma svolgendo il lavoro da casa con l’ausilio di adeguate tecnologie informatiche.
Assumere un nuovo dipendente seguendo una modalità di inclusione può permettere di dare pari opportunità, maggiore competitività ed efficienza all’azienda, anche perché si può entrare all’interno di una nuova modalità di pensiero dove la diversità è una risorsa utile all’inclusione e all’accettazione dell’altro così come è, non per il suo accomodarsi e adeguarsi. Esercitare la diversità significa riconoscere il valore aggiunto che la stessa può dare in modo efficace nell’azienda.
La nostra società è sempre più multietnica, multiculturale e sicuramente l’ambiente lavorativo rispecchia questa evoluzione. Per sentirsi riconosciuto, l’individuo ha bisogno di essere inserito in un contesto. La percezione che un individuo ha di se stesso, infatti, cambia in relazione al contesto: se esso non cambia, egli è destinato a percepire la propria immagine come inadeguata e sconfitta. Non esiste un criterio universale per stabilire chi è o chi non è “normale”. Nessuno di noi è uguale agli altri. Siamo tutti diversi ma simili. Ognuno si differenzia dagli altri per ideologie, etnie o per cultura, religione ed ancora per sesso e colore dei capelli. La normalità allora cos’è? È, per esempio, il prototipo del comportamento di una maggioranza e di un gruppo di individui che si adeguano ad un certo ordine sociale. Deve essere proprio la differenza ad essere rispettata ed è necessario sviluppare nuove strategie educative, che permettano al soggetto di crescere in base alle sue potenzialità. Paura, rifiuto, difesa dal meccanismo d’identificazione; tutto questo concorre ad erigere un muro invalicabile. Solo i bambini, le persone provate dalla sofferenza e chi ha una buona sensibilità può essere in grado di abbattere questo muro. Queste persone riescono ad entrare in empatia con le persone con disabilità poiché non si fanno influenzare dai pregiudizi e dagli stereotipi che sono alla base del processo di stigmatizzazione. Eppure il concetto che vede nella disabilità una realtà dinamica, in movimento, non è immediato; il pregiudizio della immodificabilità, la concezione che vede nell’handicap una realtà fissa, caratterizzata dalla immutabilità, è duro a morire.